lunedì 31 marzo 2014

Mercoledì 2 Aprile è la giornata mondiale per l'autismo... Come al solito nessuno ne parla...

Ma io, come i grilli parlanti, sono qui a tampinare i miei contatti e chiunque voglia condividere questo importante segno di civiltà... Per l'occasione mi sono permessa di scrivere questo piccolo cammeo, solo per tentare di sensibilizzare riguardo a ciò che molti hanno paura di affrontare...

Foto
Il mio terrore inespresso





La realtà che vivo non è comprensibile. Me ne rendo conto, giorno dopo giorno. Non parlo, ma non lo faccio per impossibilità, non perché non ne sono capace. La gente non capisce, o forse finge. Per noia? Pigrizia? Non so. Perché se qualcuno, oltre i miei genitori, si prendesse la briga di osservarmi, potrebbe rendersi conto di chi effettivamente io sia. E di cosa, effettivamente, io abbia bisogno. Ma, nonostante tutto, non posso e devo lamentarmi. Molti parlano di Dio, come se fosse un loro intimo confessore. Per me è un fedele amico. Ma non parlo del Dio che tutti conoscono o venerano. Il mio, di Dio, è differente. È l'unica entità in grado di comprendere e capire cosa un mio gesto o un mio sguardo voglia effettivamente esprimere. Io ho paura. Dio lo sa, lo comprende. Lui è con me, ogni istante, ogni giorno. Amo i miei genitori e credo che loro, a distanza di anni, lo abbiano percepito. Posseggo un mio modo per esprimere concetti, ma non per questo non provo emozioni. Contrariamente a tutto quello che nella società viene intrapreso come lotta per i miei diritti, a me non interessa che gente che non conosco si prenda la briga di salutarmi. Non sono poi tanto differente da qualsiasi altra persona. Ciò che mi rende diverso è la semplice impossibilità di avere comportamenti che rispondano ai canoni prestabiliti dall'essere normale. La mia mente funziona, e anche meglio di quella di molti. Gli impulsi ci sono, così la volontà. Il problema si pone nel momento in cui il cervello comanda al corpo una determinata azione. Non so per quale motivo, eppure i miei arti non rispondono come vorrei. I crampi alle braccia, rigide, sono atroci, ma non faccio nulla per farlo comprendere. Perché sono coraggioso? Può darsi io lo sia, ma non è questo il motivo del mio silenzio. Può darsi che io abbia una soglia del dolore più alta rispetto ai miei coetanei? No, altrimenti le lacrime che luccicano sulle mie guance non sgorgherebbero come torrenti da un monte. No. La verità è che la mia bocca produce suoni che gli altri, persino chi mi vuole bene, non riescono a interpretare. Le parole, io, le conosco. Comprendo le lezioni che vengono spiegate in classe, sono stato attento, nonostante il mio atteggiamento dimostrasse il contrario. La maestra puliva la mia bocca, schernendosi il viso per paura di uno scatto improvviso dei nervi. Lei spiegava, stoicamente, continuando a guardarmi in volto. Continuando, imperterrita a trattarmi come un bambino normale. TRATTANDOMI, soprattutto, ma sono stato fortunato. Perché lei c'è stata laddove molti altri hanno rinunciato. Conosco ragazzi che non hanno avuto la stessa mia fortuna. Conosco ragazzi che sono rimasti ai margini di una classe, il volto rivolto verso il muro, intenti a dondolare il capo in avanti e indietro nell'unico movimento che il corpo consentiva loro. Nessuno ha saputo capire. Nessuno ha avuto voglia di comprendere. Io sono fortunato, per alcuni versi, nonostante chiedo di frequente al mio amico Dio come mai non possa correre, giocare o parlare come i miei coetanei. Come fanno i miei genitori. Il sogno di ogni figlio è quello di imitare, idolatrando, il proprio padre o la propria madre. Io non posso. Non perché non voglia, ma perché non riesco. Non riesco a immaginare un futuro in un ufficio, in una carrozzeria, su un autobus affollato. Non riesco a immaginare un'esistenza senza scatti di nervi improvvisi, capaci di ferire senza la minima intenzione primordiale. Non riesco a immaginare o vedere un futuro, per me, che comprenda l'amore di una donna, l'amore di un figlio mio, la carezza di una persona gentile. Seriamente e perdutamente innamorata di me. I miei genitori mi amano, io lo so. Lo percepisco. Li ascolto, nonostante appaia sempre chiuso in me stesso. Nonostante il mio sguardo sembri assente, le mie orecchie in apparenza incapaci di ascoltare. Io so. Io comprendo. Il mio cervello funziona anche troppo bene. L'ho detto, il mio cervello funziona anche meglio di alcuni altri. Ma il mio corpo non risponde ai comandi. E il mio vero problema è intimo, è personale. Nessuno può sopire l'istinto primordiale che ho di proteggere me stesso. Perché nessuno capisce il terrore. La paura arcana del dolore, del contatto, dell'ignoto. Tutto ciò che non riguarda la mia mente è estraneo. Il diverso mi fa paura. E tutto ciò che è diverso è tutto ciò che non sono io. La gente non capisce, oppure finge nel suo ignorarmi. Eppure basterebbe osservare. Il mio sguardo basso, il voler arbitrariamente assentarmi, chiudermi in me stesso. Autistico. Automatismo. Il ripetersi di gesti conseguenti. Non sono poi così tanto differente da chi è preda di una depressione latente, da chi soffre, improvvisamente, dei cosiddetti attacchi di panico. Oh si, io li conosco. Io capisco, gente, capisco. Non parlo, non affronto un dialogo, ma io vi capisco. Perché vivo in mezzo a voi, perché mi prendo la briga di interpretare i vostri gesti, pur di migliorare la percezione che il mio cervello ha di voi. Ma voi non comprendete me. Non volete farlo. Troppo presi dalla frenesia dei giorni che si susseguono, troppo presi dal terrore di accostarvi a chi è differente da voi. Troppo presi da voi stessi, tanto da non riuscire a concepire qualcosa differente dall'estensione del vostro ego. E allora, tra me e voi, chi è il vero autistico? Cosa ci differisce, in fondo? Io sono diverso perché non parlo, perché non ascolto, perché ho paura che mi tocchiate. Voi non avete paura di me e, di conseguenza, non mi parlate, non mi ascoltate, non mi toccate? Cosa, in fondo, vi differisce da me? Siamo esseri umani, con un cervello, con degli arti, con occhi e orecchie. Mangiamo, dormiamo. Tutto nello stesso modo. Solo la maniera di esternare la nostra personalità muta, ma non significa che io debba essere ignorato per questo. In fondo, comunque, non mi interessa molto. Io amo i miei genitori, amo chi mi vuole bene. Nella stessa maniera in cui voi tenete ai vostri familiari o amici. La differenza è che voi avete molti più sostenitori di me, ma... Beh, pazienza. È per questo che alla fine mi tengo il mio amico Dio. Gioco con Lui, quando voi pensate che si volti altrove, insensibile alle vostre richieste. Ci sono anche io, pensateci. Quando mi vedete dondolare il capo, tenere le mani rigide sui gomiti piegati, pronunciare fonemi che vorrebbero essere parole. Quando voi pensate che non vi stia guardando, io vi sto studiando. Quando credete che io non vi ascolti, io sto memorizzando ogni vostro discorso. Sono una persona. Ho le mie emozioni, i miei timori, i miei amori. Ho solo paura. Più terrore di voi verso l'ignoto. Quando mi incontrate per strada, quindi, non fate finta di nulla. Oppure non ostentate un sentimento di esagerata empatia. Agireste in maniera sbagliata comunque. Non ho bisogno di compatimento. Ho bisogno soltanto che voi cerchiate di capirmi. Come fareste con chiunque altro desideroso di far parte della vostra vita. Sono una persona, prima di essere una patologia. E come ogni individuo, vivo e respiro. E piango. E gioisco. Frutto di un amore, sono pronto a donarne, anche se impossibilitato a farlo nella maniera che voi concepite come giusta perché racchiuso in un corpo forse inadatto a cogliere ciò che il mio cervello gli impartisce. Forse. Non lo so neanche io. So soltanto che ho paura e che avrei bisogno di un abbraccio sincero, anche se molte volte respingo chi tenta di avvicinarmisi. Ho paura, solo paura. Niente altro che paura.  

sabato 29 marzo 2014

Un angelo per me di Mariangela Camocardi


Un angelo per me: 1 (Passioni Romantiche)


Lisa ama follemente Damiano, fotografo famoso a cui deve la sua carriera nel mondo della moda e il futuro conseguente, una volta dismessi i panni di avvenente modella. Lo ama alla follia, senza pensare neanche per un secondo a chi sia realmente il suo amico. Già, perché, nonostante abbia di lui una precisa idea in qualità di uomo, Lisa non sembra rendersi conto obiettivamente di chi abbia davanti. Profondamente convinta che il fotografo ricambi in pieno il sentimento coltivato nel tempo, forte e impetuoso, decide di ignorare volutamente le insistenti avance dell'uomo più facoltoso della città, Andrea Ruffini, il quale cerca in ogni maniera il particolare adatto a carpirne il cuore. Mariangela Camocardi introduce, così, una romantica e appassionante storia d'amore. Un racconto lungo, edito dalla Delos Digital, che risalta tutta la maestria delle regine romance degli ultimi tempi. Con uno stile consolidato, proprio di quelle scrittrici avvezze a navigare tra le sinuose onde di un mare intriso di macchie di petrolio, data la fortissima competizione che ho potuto constatare, la Camocardi traccia la trama solida di una vera storia romantica, dal tipico gusto femminile che ha, nel tempo, avvinto milioni di donne lettrici. “Un angelo per me” paga, forse, la brevità della collana “Passioni romantiche” reclamando un più ampio respiro per dar modo a ogni personaggio di esprimere il proprio carattere nella sua interezza, ma non delude. Al contrario, affascina e stimola a volerne di più. Non a caso si sta parlando di una scrittrice che ha firmato oltre quaranta opere, tra romanzi e racconti. Qualcosa vorrà pur dire, no? Si, a mio avviso significa che la classe e il talento sono talmente consolidati che la Camocardi riuscirebbe a esprimere sentimenti ed emozioni anche solo mediante due parole accostate. Nonostante la brevità del racconto, infatti, si possono evincere le diverse sfaccettature proprie di alcuni animi, primo fra tutti quello facente capo al detto “all'amor non si comanda”. Quante volte il corpo, in una storia d'amore, agisce impulsivamente, preda di un sentimento che il cuore ancora stenta a riconoscere? Lisa non si rende conto di aver compiuto la sua scelta, nel mentre di assecondarla, perché convinta fermamente delle proprie idee. Convinta, forse ancor di più, dell'idea precisa che ha del suo futuro e di cosa debba comprendere. Complice la paura di un salto nel vuoto, forse per latente insicurezza dovuta allo sfiorire degli anni, Lisa non vuole cedere alle lusinghe del facoltoso Ruffini perché fermamente persuasa di essere solo la meta di un'ennesima sfida dell'uomo. La scusante primaria che spinge la donna a rifiutare le avances di Andrea è quella di non voler finire nel vasto harem che, nel tempo, è andato costituendosi nella vita dell'uomo, come se accettando le sue lusinghe cedesse a una debolezza che la renderebbe ridicola e fragile. L'insicurezza la spinge a volere qualcosa di mediocre, di infinitamente inferiore, ignorando volutamente gli indizi che la vita le offre su un piatto d'argento, negando anche l'evidenza dell'infima bassezza di cui si macchia Damiano ai suoi occhi. Persino il pensiero di una gravidanza non riesce a dissuaderla da ciò che la mente ha costruito come nido confortevole per l'idea d'amore che ha. Sarà soltanto la perdita del suo mondo, l'effettivo declassamento formale del suo ego che spingerà la donna a fare i conti con la propria personalità e, soprattutto, con la dura realtà che si è sempre rifiutata di valutare. E il concetto spinge a riflettere ogni donna. Cosa, infatti, si è disposte a ignorare pur di essere accettate dal prossimo? Cosa determina lo scattare della propria volontà davanti a un evidente sopruso? E cosa deve fare un benedetto uomo, animato da un sincero amore, per farsi notare? La donna, nonostante la voglia di abbattere i cliché imposti dalla modernità, ha un costante bisogno di essere rassicurata. Ma soprattutto ha la perenne necessità di sentirsi bella e appagata, con la segreta convinzione di essere la possibile meta sessuale e intima di chiunque lei voglia. Non è forse questo ciò che anima un amore non corrisposto? L'incaponirsi in una relazione sbagliata non è forse dettata dalla forte convinzione che nasce nel cuore di poter essere “quella” donna? Forse è proprio per questo che tali racconti, come “Un angelo per me”, colpiscono e ancora continuano a far sognare milioni di donne, checché ne dicano taluni editori o benpensanti. La donna ha bisogno di sentirsi dire di valere. E ha bisogno di credere, costantemente, che un uomo che sappia amarla e proteggerla esiste. Un uomo spinto unicamente da un sentimento puro, non atto a soverchiare, bensì ad abbracciare pregi e difetti che esaltano le qualità di cui ogni individuo è padrone. La Camocardi mi ha fatta sognare, quindi non mi rimane che consigliarne la lettura...

giovedì 27 marzo 2014

Cara cognata, ti odio! di Corinne Savarese



Cara cognata, ti odio!



Daphne, vestita del suo abito nero, simile a una calla rivolta verso il basso, incede nella sala del ristorante in cui è stata invitata dal nuovo collaboratore della sua società. Un collaboratore estremamente importante, facoltoso, famoso. Andrea De Michelis, dallo sguardo verde acqua e fisico prestante. Quasi un dio sceso in terra che l'attende, accanto al tavolo prenotato, una strana luce negli occhi, un sorriso sornione e malizioso a increspargli le labbra... E una donna bruttissima avvinghiata al collo, quasi fosse una scimmia in bilico su un ramo dall'equilibrio precario. La classe di Daphne quasi inciampa, alla visione grottesca che le si palesa davanti, mentre una rabbia sorda per essere stata ingannata si insinua, come una lingua di fuoco, nelle vene arse dalla presenza scomoda di una rivale. Ma la donna koala non è una rivale. No. Andrea, abile stratega, già avvinto all'estrema bellezza della dama attesa, presenta il ciondolo umano quale sua sorella. Sorella devota, cara, amorevole. Sorella dai modi euforici e contagiosi. Annabella. E Daphne respira, rinfrancata, pronta per cedere alle lusinghe di un corteggiamento neanche troppo sopito. Cede, respira... E capisce ben presto come Annabella sia ben lontana dall'essere la fragile donna appena conosciuta. E la sua vita diverrà un incubo costellato da articoli menzogneri redatti in giornali di gossip, intolleranze alimentari dovute a quasi certi avvelenamenti e bugie atte a destabilizzarla socialmente e moralmente. Corinne Savarese presenta, in questo modo, ciò che ho considerato, fin dalle prime pagine, il fondamentale italiano che risponde all'egemonia della Kinsella nel panorama del Chick Lit. Una rivelazione al suo esordio. Lo stile ironico, privo di volgarità, corredato da una schiettezza disarmante fanno di “Cara cognata ti odio” la premessa a ciò che l'Italia è in grado di sfornare se messa alla prova. Mai noioso, dal ritmo incalzante, brioso ed estremamente gustoso, il romanzo della Savarese vive di vita propria. Quasi come a voler mostrare uno specchio di acqua tersa e cristallina, Corinne riflette l'immagine di un mondo estremamente divertente, proprio della commedia inglese, dai tratti ironici ben delineati, mai sguaiati o forzati, capaci di mostrare in maniera intelligente come si possa essere in grado di scrivere bene in modo semplice e non per forza ricercatamente astruso. Dotata di un talento proprio a pochissimi scrittori presenti nel panorama contemporaneo, Corinne Savarese fa ridere di gusto nel tratteggiare il personaggio della scaltra Annabella, sorella di quello che il genere romance vorrebbe tra i protagonisti, ma che, al contrario, diventa quasi un carattere secondario; al limite della psicopatia, preda di un'insicurezza personale tale da spingerla a gesti di estrema cattiveria pur di detenere un potere emotivo che giudica e reputa suo di diritto, Annabella distruggerà tutti i progetti di Daphne, sistematicamente e senza alcun ripensamento, in maniera talmente intelligente da renderla quasi un mito agli occhi del lettore. Il modo in cui ama visceralmente il suo adorato “ex futuro marito Steve”, altrimenti noto con mille e più nomignoli fantasiosi, ognuno più spassoso dell'altro, è talmente assurdo da sembrare quasi possibile, in una realtà odierna in cui tutto è spinto all'estremo e all'eccesso, in cui la fragilità umana viene mascherata in modo tale da non essere rivelata per timore di non essere all'altezza del contesto sociale in cui si gravita. L'abitudine in cui cade nell'essere coccolata e vezzeggiata, in maniera totalmente sbagliata, dai propri familiari, rimanda alla costante modalità che molti genitori hanno di trattare i propri figli nella speranza di far bene senza rendersi conto di rovinare ulteriormente la situazione già di per sé precaria. Quante volte si è criticato un bambino evidentemente viziato? E quante volte si è condannato il comportamento troppo permissivo del genitore, colpevole di non saper giudicare in maniera obiettiva l'operato della prole perché accecato da particolari futili, ma non per questo meno importanti, a discapito di altri più pressanti e importanti? Molte volte. Eppure non si ha mai il coraggio di esternare la propria perplessità, fornendo un consiglio utile al fine di porre rimedio a una situazione chiaramente disastrosa. In “Cara cognata ti odio” Corinne svela proprio l'importanza di saper intervenire e consigliare, anche a discapito della propria felicità, a volte, nella ferma convinzione di fare del bene, in nome del perdono, dell'accondiscendenza atta ad aiutare e non a privare, e in nome di un voler mostrare cosa sia giusto fare e dire in momenti in cui ogni cosa sembra concertare per l'esatto contrario. A volte bisogna saper accettare le critiche, le avversità, le delusioni e le proprie fragilità, non affibbiando necessariamente colpe inesistenti a chi non ha responsabilità di sorta. Aldilà della chiave intimistica, chiaramente palesata a chi vuole leggere tra le righe, Corinne riesce a mettere in scena una commedia estremamente divertente, che non vive assolutamente della componente romance, seppur presente e coinvolgente, quanto del lato umoristico ed estremamente ironico che rende ogni dialogo e battuta un espediente per migrare verso mondi lontani dalla realtà opprimente che crisi e problemi comportano. Una lunga parentesi di buon umore, atto ad alleggerire l'anima e il cuore, in stile anche cartoonesco, per alcuni versi, che ben si sposa con la storia narrata, mai banale o priva di abbrivio necessario in un genere simile. Brava e sagace anche nel finale a sorpresa, uno dei pochi che ultimamente è riuscito a entusiasmarmi tanto da ripensarci col sorriso sulle labbra, Corinne ha dimostrato, al suo esordio, quanto il talento sappia manifestarsi senza bisogno degli espedienti fantasiosi a cui molti scrittori mediocri sono costretti a ricorrere pur di sgomitare qualche posto in avanti. “Cara cognata ti odio” mi ha riportata ai primissimi episodi di I love shopping, facendomi ricordare quanto lo stile brioso e spontaneo di tale saga mi avesse avvinto. Rimanendo in attesa dei prossimi episodi, che so per certo in procinto di giungere fino a noi, non posso che fare i complimenti a questa bravissima autrice, stupendomi di come un'esordiente riesca a essere migliore di tanti emergenti o affermati autori contemporanei, chiedendomi quando finalmente sarà notata da una grande casa editrice disposta a scommettere su una bravura e un talento certi. Non a caso il romanzo in questione è rimasto al primo posto in classifica su Amazon per molto tempo e continua a gravitare intorno alle prime posizioni...  

mercoledì 26 marzo 2014

Passioni mortali di Isabel Heyers (nom de plume di Fabiola D'Amico)


Passioni mortali


L'amore coglie Matt impreparato, nonostante lo spinga a rivelare una parte del suo carattere così repentinamente da farlo dubitare addirittura del suo futuro. Mai aveva preso in considerazione la prospettiva di creare una propria famiglia, mandare al diavolo la sua imperitura carriera di accattivante gigolò assieme al suo collega e amico David donando il proprio cuore a una donna speciale. Ma, nel momento in cui vede per la prima volta Rebecca ogni sfaccettatura della sua vita passata perde di valore, intensità e i contorni dei ricordi vengono offuscati dalla bellezza e dalla dolcezza della donna. Il loro incontro avviene in maniera strana, totalmente inusuale, mettendo subito i due nella condizione ideale di provare una passione potente e impensata. Ma ben presto Matt e Rebecca comprendono quanto sia impossibile vivere il loro amore alla luce del giorno. Lei, assediata e oppressa da una sorella dalle forti turbe psichiche, possessiva in maniera totale e allucinante, e preda di un egoismo che raggiunge soglie di inimmaginabile cattiveria. Lui, preda della sua impulsività che lo rende incapace di attendere, comprendere, amare come dichiara di voler e saper fare. Questa volta la Fabiola D'Amico ci introduce nelle trame fitte di un thriller mozzafiato, carico di erotismo e note di ironia insospettabili, nonostante qualche avvisaglia lei stessa l'avesse lanciata nella stesura di “Una giornata da favola”. Fin dalle prime pagine si viene proiettati nei meandri di una narrazione avvincente, per le vie di Miami, fianco a fianco con la squadra Swat intenta a sgominare una banda di narcotrafficanti aiutati nei loro traffici da una talpa all'interno della squadra stessa. Insomma, i presupposti appaiono succosi fin dalle prime battute e la D'Amico non sembra più una scrittrice italiana, ma addentrata nella filosofia americana del genere, quasi stesse ideando la trama di una serie televisiva poliziesca di grido. Non esagerando mai, descrive in maniera minuziosa scene verosimili, addentrandosi nella psicologia dei personaggi permettendo al lettore di immedesimarsi nel migliore dei modi. La lettura risulta, quindi, avvincente da subito. In meno di un'ora si giunge a metà romanzo rendendosi conto di avere avuto la percezione di avere appena iniziato. Come detto in passato, la D'Amico, nonostante la sua ritrosia e timidezza con cui si schernisce nel definirsi scrittrice, peccando di eccessiva umiltà, fornisce le prove di essere degna di tale appellativo, dotata di un talento naturale nella scrittura e nella narrazione delle sue storie. La maniera in cui espone le scene erotiche non infastidisce mai, accattivandosi, invece, l'approvazione del lettore che appare, via via, più convinto di aver fatto la scelta giusta. Non riesco a comprendere, a volte, determinate dinamiche che creano dislivelli tali da rendere più famoso un autore piuttosto che un altro quando, a una semplice obiettività, apparirebbe chiara la differenza sostanziale tra i mediocri e i meritevoli. Inutile dire che la D'Amico entra a far parte, di diritto, nella fazione dei meritevoli. Non solo per la storia che, fino alle ultime battute, regala colpi di scena intelligenti e per nulla “gigioni”, anzi anche molto azzardati e audaci, ma per la sapienza che l'autrice dimostra nel saper narrare tali scene, non risultando mai noiosa, avvincendo, invece. Per questo motivo mi sento in dovere di consigliare la lettura di questo romanzo. Per godere di una buona storia, per saggiare la bravura della D'Amico nel sapersi addentrare, con talento, in nuovi filoni letterari fino a questo momento non sondati e per comprendere, una volta per tutte, la realtà sulla fucina di autori italiani: di bravi ce ne sono e se solo fossero pubblicizzati come meriterebbero, lo saprebbero in molti.  

martedì 25 marzo 2014

La recensione a L'Inferno di Rebecca a cura di Vittorio Xlater

rebecca
In teoria non dovrebbe esserci bisogno di assegnare un romanzo a un genere. Un autore scrive quello che si sente di scrivere, e non serve appiccicare un’etichetta per rendere un’opera di narrativa fruibile e apprezzabile al pubblico dei lettori.
Nella pratica le cose sono meno semplici. Perché l’appartenenza a un genere costituisce una forma di pre-comunicazione tra chi scrive e chi legge. Comporta delle aspettative, dei taciti accordi, un certo approccio, delle regole implicite.
Questo romanzo di Federica D’Ascani esce in una collana di narrativa erotica, e lo stiamo presentando su un sito che si occupa di letteratura erotica, ma non è, né voleva essere nelle intenzioni dell’autrice, un romanzo erotico. C’è del sesso, e non poco. Non è così centrale da poterne fare un romanzo erotico. Al tempo stesso forse ce n’è troppo per poter ospitare il romanzo in contesti diversi (e qui la colpa è nel miope bigottismo di editori di altri generi che hanno rifiutato il manoscritto per la presenza di troppo sesso).
In realtà non è facile assegnare questo romanzo univocamente a un solo genere, e non sono uno che ama particolarmente attaccare cartellini. Ma in una recensione va spiegato al potenziale lettore cosa deve aspettarsi. Allora direi che in questo romanzo ci sono molti elementi del thriller psicologico, ma ci sono anche molti elementi dell horror satanista.
Mischiare generi diversi è operazione delicata e rischiosa. Può funzionare inserire qualche elemento di un genere in un’opera di un altro genere. Ma deve esserci un genere che guida, con le proprie logiche, le proprie semantiche, i propri riti, le proprie regole. Altrimenti si rischia un po’ di confusione.
L’Inferno di Rebecca parte in modo molto interessante e ambizioso. Ci sono ben tre flussi narrativi paralleli: una sfida notevole per una scrittrice.
Su un primo flusso, la protagonista Rebecca racconta in prima persona la storia di una breve vacanza in Umbria con il proprio fidanzato, Stefano. Il rapporto tra i due è piuttosto problematico. Lui è arrogante, prepotente. Lei è combattuta tra una componente interiore che si sente irrimediabilmente succube di lui e un’altra componente che vorrebbe respingerlo e ribellarsi alle sue continue violenze psicologiche. Una situazione, ahimè, fin troppo comune anche nella realtà: troppe donne perdono la testa per il bastardo che le maltratta. Ma nel caso di Rebecca e Stefano ci accorgiamo che la bastardaggine di lui, tanto quanto l’essere succube di lei, vanno ben oltre ogni normalità, per sfociare direttamente nel patologico.
Nel secondo flusso narrativo, siamo in un momento futuro rispetto al primo flusso. Rebecca è in un casa di cura per malattie psichiatriche, dove un dottore sta faticosamente cercando di analizzarla. Capiamo che Rebecca è lì per aver tentato di uccidere il proprio ragazzo, Stefano, durante quella stessa vacanza di cui si parla nell’altro flusso. Il medico deve dare il suo responso per capire se in quel momento la ragazza, sicuramente un soggetto dalla mente “disturbata” con alle spalle un tentativo di suicidio, fosse in condizioni di intendere e di volere, o se possa valere per lei l’alibi dell’infermità mentale.
Con questi primi due flussi siamo in pieno thriller psicologico. Perché vediamo che la ragazza in realtà è solo una vittima che paga la propria fragilità, mentre ad apparire sempre più uno psicopatico è il suo Stefano, ed è abbastanza evidente che sono le continue angherie emotive e psicologiche che lui infligge alla ragazza a minare gli equilibri di quest’ultima. Ma vediamo anche che non tutti capiscono la situazione, anzi, per molti personaggi la “pazza” è Rebecca, mentre il ragazzo è una povera vittima, che per amore l’ha tenuta accanto nonostante gli acclarati disturbi mentali, fino a rischiare di essere ucciso durante un raptus di follia di lei.
Il terzo flusso narrativo è quello che ospita l’elemento horror satanico. Scopriamo che Stefano è un adepto di una certa setta satanista, devoto di un demone minore, ma molto potente. Si lascia intendere che la sua cattiveria, la sua bastardaggine, sono conseguenza della sua adesione al satanismo.
La chiave di ogni thriller psicologico è nell’implicita minaccia che contiene e che suona più o meno così: ogni persona, anche quella apparentemente più sana, nasconde nel proprio inconscio dei mostri, di violenza, o di qualche forma di follia, e ognuno di noi, se sottoposto agli stimoli giusti, può ritrovarsi schiavo di questi mostri interiori.
Ma i mostri che nel thriller psicologico sono annidati nel nostro inconscio e pronti a impossessarsi di noi, nell’horror satanico sono invece demoni esterni, dotati di vita propria, di un’esistenza oggettiva indipendente, che ci posseggono o che ci dominano togliendoci il controllo di noi stessi. Due visioni contrapposte, che possono essere conciliate in un solo modo, ossia dando ai demoni satanici una lettura simbolica. Come dire che l’adesione di Stefano alla setta satanica andrebbe interpretata metaforicamente come il suo cedere agli istinti più violenti e prevaricatori che albergano dentro di lui. Così come il demone che si insinua in Rebecca e la obbliga ad accetare in modo succube i soprusi che subisce da lui è in realtà quella strana molla ancestrale che lega il torturato al suo aguzzino e che genera le sindromi di Stoccolma e manifestazioni affini. E’ una lettura che, leggendo i primi capitoli, può starci e convince.
In particolare riveste fascino la figura di Dalia. Viene presentata come una persona realmente esistente ma la si riconosce presto come la personificazione di una componente dell’animo di Rebecca: è la sua parte forte, la sua femminilità indomabile. E’ la componente che più si oppone alla sudditanza di Rebecca nei confronti di Stefano. Nel flusso horror satanico le si riconosce lo status di una figura metafisica, una specie di semidea pagana, ma è perfettamente coerente con la lettura simbolica.
Questo inizio a tre flussi è tanto ambizioso quanto esaltante per chi legge, anche perché l’autrice sembra padroneggiarne la complessità con estrema disinvoltura. Ma soprattutto si percepisce molto coinvolgimento nella scrittura. Non c’è solo mestiere in quello che leggiamo, ma anche passione che viene dal profondo. E’ evidente che gli argomenti trattati toccano qualche corda sensibile nell’autrice.
Andando avanti nella lettura, ci accorgiamo che il flusso narrativo “satanico” a un certo punto si inabissa e scompare. Rimane pertanto una storia che si dipana sul piano del puro thriller psicologico. Man mano scopriamo dettagli della vacanza in Umbria. Man mano vediamo il medico scoprire sempre qualche dettaglio in più della psiche tormentata di Rebecca. Vediamo anche cosa succede nel frattempo fuori dalla casa di cura. Stefano che si consola con altre due ragazze (anche loro succubi della sua prepotenza), Serena e Tania. Scopriamo la famiglia di Stefano, i genitori di Rebecca sull’orlo della separazione, quelli di Tania che ha un momento incestuoso con il padre. Situazioni tutte psicologicamente complesse, in cui ogni personaggio viene descritto con mirabile profondità, nei suoi pregi, nelle sue tare, nei suoi demoni latenti. Troppi personaggi, forse. Talvolta è faticoso seguire i mille rivoli in cui si frammenta la narrazione, ma la storia di ognuno di questi personaggi ha un proprio pathos, una propria complessità, una propria drammaticità. Si sussguono momenti tragici, da vari punti di vista, e Federica è bravissima a creare ogni volta la suspance appropriata per descrivere le cose che accadono sempre suscitando il giusto brivido e la giusta ansia.
Quando si arriva agli ultimi capitoli, succede una cosa un po’ inaspettata. Il flusso narrativo  horror satanico, che per parecchi capitoli era del tutto scomparso, riemerge e monopolizza prepotentemente il finale. Tutto quello che era stato il plot fino a quel momento viene asservito ai capricci di una complicata gerarchia di diavoli, e gli eventi che vengono rappresentati da lì in poi sono perfettamente in linea con il genere, con tanto di persone possedute che camminano sui muri e sui soffitti, corpi squartati e divorati, sangue che schizza dappertutto, esorcisti (sic!) inviati direttamente dal Vaticano, pagine del Vangelo che vengono lette per cercare di debellare i demoni.
Dal punto di vista del genere horror satanico sono pagine assolutamente magistrali, tali da emozionare e coinvolgere anche chi non è un fan di tale filone. Non si può negare che la lettura sia suggestiva, appassionante e giustamente terrorizzante, e si apprezza moltissimo la tecnica dell’autrice nel gestire la tensione e l’intensità.
Tuttavia non riusciamo a convincerci che questo finale non alteri l’equilibrio complessivo del romanzo e non distrugga in qualche modo tutto quello che si era creato nella parte centrale dell’opera. Tutti questi demoni che salgono sulla ribalta rendono impossibile, o perlomeno estremamente ardua e contorta, una lettura simbolica. La stessa figura di Dalia viene completamente distorta da quello che sembrava essere all’inizio. Il contrasto ideologico tra il thriller psicologico e l’horror satanico, viene risolto decisamente a favore di quest’ultimo, e non è una scelta che ci convince fino in fondo.
I meccanismi che fanno emergere i mostri dall’inconscio umano, nei thriller psicologici, seguono delle regole e richiedono una loro coerenza. I capricci dei Demoni immaginari sono invece del tutto arbitrari, e laddove ci si guadagna nel gusto splatter di certe scene (per chi le apprezza, perlomeno) ci si perde in pregnanza, in profondità, in sostanza.
Erano gli autori meno fantasiosi e creativi quelli che nell’antica grecia facevano sbloccare le situazioni più complesse e intricate dall’intervento del famoso deus ex machina, che arbitrariamente sistemava le cose come meglio voleva. Si potrebbe dire che Federica fa la stessa cosa, lasciando risolvere una situazione complessa e intricata di un thriller psicologico a dei diabuli ex machina.
Tuttavia trovo ingeneroso pensare a questo finale come un escamotage furbetto per dare una chiusa d’impatto a un plot che era cresciuto di complessità sin forse ai limiti dell’ingestibilità. Preferisco pensare che nel delineare una storia scritta con l’anima, in cui Federica ha fatto vivere propri fantasmi, paure, terrori, forse ricordi, ci sia stato il momento in cui è stata pervasa da un’istinto di distruzione, un cupio dissolvi, una smania di esorcizzare, in un bagno di sangue e di morti, tutta la costruzione. L’esigenza psicologica di annientare il castello dei propri incubi ha prevalso sulla coerenza narrativa. La passione per l’horror satanico e l’indubbia padronanza narrativa hanno fatto il resto.
Forse la gestione di un’architettura così complessa avrebbe richiesto una distanza e una freddezza che non si potevano pretendere da Federica per una storia nella quale è impossibile non percepire una qualche forma di coinvolgimento profondo. In compenso non si può negare che la lettura di questo romanzo sia sempre avvincente, palpitante e spesso capace di lasciare chi legge col fiato sospeso. Leggere questo romanzo è un’esperienza che non lascia indifferenti e sicuramente non annoia. Non è un romanzo erotico, ma vale sicuramente la pena leggerlo.

Di seguito il link al blog  di Vittorio Xlater:

lunedì 24 marzo 2014

Week end tra amici, film di Stefano Simone

WEEKEND TRA AMICI


Un fine settimana tra amici, due giorni da trascorrere, di rito, insieme alle vecchie conoscenze con cui si è cresciuti. Rivangando ricordi, condividendo una passione che accomuna quelle menti che, in gioventù, si unirono per alchimia o, forse, soltanto per circostanze fortuite. Gianni, Stefano, Fabrizio e Marco si ritrovano, quindi, in un casolare fuori città, isolati, per assistere alla proiezione televisiva del quadrangolare di calcio che coinvolge le loro squadre del cuore. In un crescendo di dissidi, ben presto, ciò che apparirà chiaro e cristallino sarà la totale mancanza di interesse per il pretesto iniziale, il calcio, in favore, invece, di uno scontro sistematico tra personalità distanti, differenti e in competizione fra loro. Dando ampio margine e spazio ad alterchi sistematici, la situazione andrà degenerando, rovinando pericolosamente verso situazioni fin troppo reali e moderne. Un “Weekend tra amici” narra, in effetti, proprio dell'aspetto sociale che ben contraddistingue il mondo odierno, ovvero l'ipocrisia e la voglia imperitura di mantenere una facciata distante dalla realtà, dipingendo la propria vita agli altri in maniera tale da suscitare pietà per non si sa bene quale scopo. Forse per dimostrare una fragilità che, in realtà, non si possiede davvero al solo fine di essere compatiti e protetti, come una mamma amorevole farebbe con il proprio figlio. Una denuncia, questa, atta a dimostrare quanta poca maturità caratterizzi l'animo umano moderno. Sovente si ascoltano notizie ai telegiornali riportanti fatti di cronaca allucinanti, intrisi di una violenza difficile da comprendere, ma propria dell'essere umano. E nel lungometraggio di Stefano Simone è facile carpire le motivazioni che, solitamente, spingono verso il sangue e la violenza. Non si parla mai di come le amicizie nascano, ma molte volte sono eventi distanti e improvvisi a unire delle persone nettamente distanti tra loro per personalità e stile di vita. Nel film presentato da Stefano Simone, infatti, gli amici non sono altro che persone totalmente differenti per carattere e status sociale, uniti da una gioventù lontana che non ha forgiato la loro personalità, bensì solamente creato le basi affinché sfociasse nel carattere di latente insofferenza ed egoismo che si evince nel presente. E sovente, bisogno dire, accade proprio così. Quante persone hanno tra le proprie amicizie individui che mal sopportano, ma che dichiarano di tenere in considerazione come fossero fratelli solo per convenzione sociale e abitudine temporale? Moltissime, anzi quasi tutte. Ma “Week end tra amici” non è soltanto questo. È denuncia verso la violenza immotivata, verso l'indifferenza che molti dimostrano ai problemi altrui, verso discussioni sterili che troppo spesso sfociano in alterchi esagerati in grado, addirittura, di causare gravi danni al prossimo, se non proprio la morte. Stefano Simone, e lo sceneggiatore Francesco Massaccesi, hanno voluto denunciare la scarsa considerazione della vita altrui per lasciar ampio spazio alla ragione del proprio essere. I frequenti omicidi di cui sono colmi i notiziari, d'altronde, non riescono a sfatare questo mito che, anzi, cresce di giorno in giorno. Il calcio, così come altre motivazioni inutili, non sono altro che un espediente per esprimere una violenza repressa e insita nell'animo di molti, bisognosi forse soltanto di un ascolto perduto nel tempo. La suspence cresce, da metà film, per esplodere in un susseguirsi di colpi di scena che, effettivamente, appaiono totalmente inaspettati e spiazzanti. Il regista è molto bravo, mediante le inquadrature, supportate dalle musiche di Auriemma, a creare il clima di tensione necessario al thriller cui ha dato vita, nonostante la recitazione degli attori, molto spesso al di sotto dell'ambizioso progetto che invece è stato portato avanti grazie a una buona sceneggiature e a delle ottime riprese. Forse la ripetizione di alcune scene, durante i momenti morti, crea qualche sorriso di troppo, nello spettatore, ma nel complesso il lungometraggio di Stefano Simone lascia il segno, decretando come, anche in ambito cinematografico, l'Italia abbia ottime risorse non sfruttate nel migliore dei modi. Perché un “Week end tra amici” risente del basso budget a disposizione, purtroppo, pur dimostrando una bravura in grado di superare tale ostacolo. Ci si chiede come mai si prediliga la proiezione di film stranieri favorendo l'esterofilia anche in tale ambito, piuttosto che supportare giovani registi con la stoffa adatta a raggiungere livelli molto più alti dai quali son costretti a partire. Stefano Simone di gavetta ne sta facendo, e ne ha fatta. Nato a Manfredonia nell '86, esordisce alla regia con il cortometraggio “Il delitto di classe” nel 1999, cui seguiranno numerosi altri progetti simili, principalmente orientati verso un contesto horror che, ahimé, poco paga nel nostro paese. Successivamente decide di rendere la sua passione un vero e proprio lavoro, iscrivendosi all'istituto Fellini di Torino, città in cui si trasferisce proprio grazie a questo progetto, conseguendo il diploma di “Operatore della comunicazione visiva”. Da lì in poi la strada comincia a essere in continua salita. Dai cortometraggi passa ai film per il cinema e grande distribuzione, esordendo con “Una vita nel mistero” nel 2010, cui seguirà il lungometraggio “Unfacebook” tratto da un racconto inedito di Gordiano Lupi “Il prete”. “Week end tra amici” è il suo ultimo lavoro, ma è certo che il regista non ha minimamente intenzione di dormire sugli allori, proseguendo in un lavoro instancabile e certosino atto a esprimere in toto il suo talento fin troppo represso dalle dinamiche di falsa meritocrazia che caratterizzano l'Italia, troppo incentrata a dar merito a persone fin troppo spesso sopravvalutate dai media. Distribuito da Running tv International, presto in TV, VOD e in home video, “Week end tra amici” è il lavoro di un ragazzo colmo di talento che scalpita per uscire dall'underground. E secondo me, con la tenacia che dimostra e l'indiscusso talento, ce la farà!  

Regia: Stefano Simone. Scritto da: Francesco Massaccesi. Editing & Colour correction: Stefano Simone. Musiche: Luca Auriemma. Arredamento: Dino D’Andrea. Effetti Cg: Andrea Ricca. Interpreti: Matteo Perillo, Michele Bottalico, Filippo Totaro, Peppe Sfera, Tonino Potito, Nicla Loconsole, Michela Mastroluca, Raffaella Piemontese, Adolfo Renato, Tecla Mione. Origine: Italia. Anno: 2013. Durata: 62’.

sabato 22 marzo 2014

Finiamola qui di Macrina Mirti



Finiamola qui (Senza sfumature)

Quante volte è capitato di imbattersi in una storia d'amore che poi, in fondo, amore non era? Illusi, incaponendosi in un'idea di rapporto ben lungi dall'essere reale, gli amanti convivono storie, sovente, prive di abbrivio per un futuro duraturo. Tali storie posso durare anni, prima di rivelarsi per ciò che sono, ovvero castelli di sabbia pronti a sgretolarsi al primo schizzo di un'onda impetuosa o al semplice tocco lieve di un bimbo in procinto di aggiungere ulteriore terra al suo lavoro. Nonostante non voglia arrendersi alla dura realtà che la sua mente tenta in ogni modo di suggerirle, Lisa persiste nell'arenarsi in un rapporto che non la soddisfa e che, in fondo, non vuole. Pur di vedere i suoi sogni realizzati la donna, infatti, accetta amplessi complicati e lontani dalla sua idea di amore. Il tutto solo per continuare a coltivare la speranza di un matrimonio agognato. Ma a quale costo? E il nuovo lavoro in che maniera inciderà nel rapporto con Gianni? E se ne rivelasse le effettive falle che, inconsciamente, lei ha già subodorato? Macrina Mirti torna con un nuovo racconto erotico, questa volta dalle tinte romance più marcate. Una storia intensa, seppur breve, che guida il lettore in una storia reale abbastanza da farlo riflettere circa il suo passato. Tutti quanti, tranne rari casi, hanno alle spalle storie di amori complicati, errati, forti solo della convinzione nata, inizialmente, di dare una svolta alla propria esistenza tramite la classica “volta buona”. E il risveglio dal sogno, sovente, è talmente duro da accettare che si sarebbe disposti addirittura a soprassedere a certi comportamenti non condivisi, odiati, anche. Tutto per tentare di “sistemarsi”. Tutto per non rimanere soli, continuando a incedere in una vita in cui la parola solitudine fa più male dell'amore stesso. Ma ancor più difficoltoso, forse, è tentare di risollevarsi, affrontando l'ignoto gettandosi in un sentimento nuovo, con il terrore di incappare, nuovamente, in un'errore. Terribilmente reale, “Finiamola qui” si legge in un fiato, e non per la sua brevità, ma per il ritmo che Macrina ha saputo conferire alle parole, alle frasi, ai periodi. Tutti, in questa novella, concerta per creare una gustosa parentesi, che sia serale o pomeridiana, dall'erotismo fine, pennellato con una cura e una grazia da rimanerne deliziati. Non è semplice costruire storie in cui perdersi è semplice, ma Macrina lo fa, e con indiscusso talento. “Finiamola qui” non è un racconto gettato lì, condito con qualche episodio piccante tanto per rispettare un genere ricercato, quanto una vera storia, probabile, in cui l'erotismo abbraccia momenti di intenso sentimento. I personaggi non sono descritti in maniera maniacale, come sovente avviene nei racconti, ma vengono dipinti via via, con lo scorrere delle pagine, introducendoli al lettore con una delicatezza tale da renderli reali pur non soffermandosi sui loro lineamenti. Si evince, ad esempio, il rapporto astioso, ma caratterizzato dall'affetto, che la protagonista ha con la sua amica Marianna. Si capisce come Giorgio, per quanto non sia un personaggio positivo, rimanga umano, colpevole di non amare, ma non di illudere fino in fondo. Si capisce la fragilità emotiva di Lisa, la sua inclinazione a voler essere protetta nonostante tutto di lei gridi all'indipendenza. E si comprende il dolore latente di Cristiano, per il suo passato, nonostante le vicissitudini inerenti siano solo accennate. Insomma, Macrina convince di nuovo e, forse, ancora più di prima. Mi sento di consigliare fortemente, alle amanti del romance un poco spinto, questa novella. Per come è scritta e per cosa voglia trasmettere, riuscendoci al limite della perfezione.  

venerdì 21 marzo 2014

E' te che aspettavo di Alessandra Paoloni

È te che aspettavo
Elly e la morte di Judith. Elly e i suoi genitori confusi e devastati dal dolore. Elly e il suo senso di colpa. Elly e la prospettiva di un amore molto più vicino di quanto possa solo sperare. Quale di queste personalità sono proprie della donna e quante sono la semplice conseguenza di un avvenimento indipendente dal suo volere? Judith, sua sorella, è morta da poco tempo e una colpa latente mina la stabilità psicofisica di Elly, la quale assiste inerme all'infrangersi non solo della quiete familiare ma anche della sua stessa felicità. Sarà durante una cena dai suoi genitori, in un clima nettamente opposto a quello consueto di quando Judith camminava il mondo terreno, che Elly percepirà chiara la sua tristezza e il senso di colpa che l'attanaglia. E tutti questi sentimenti non saranno palesi solo al suo animo, bensì anche agli ospiti inattesi che le si figureranno davanti. Uno, in particolare, desterà la sua attenzione, avvinto al suo dolore come lei al fascino di lui. Ed esploderà una passione insospettata, priva di qualsiasi ragionevole senso, ma pura e appagante, carica di un desiderio che, forse, diventerà qualcosa di più... Nonostante Alessandra Paoloni avesse dato prova, nei suoi ultimi lavori, di quanto fosse cresciuta nelle storie che narrava e nella maturità che esse dimostravano, nessuno avrebbe mai pensato fosse anche padrona di un genere del tutto nuovo, al suo lettore, come lo è l'erotico. La Paoloni aveva abituato al tema fantasy, storico o, addirittura, poetico, ma mai aveva ventilato una sottile e abile sapienza nel saper scrivere erotico come, al contrario, ha fatto e fa in questa novella “È te che aspettavo”. Vari sono i temi trattati nel racconto lungo che l'autrice tocca, primo fra tutti la morte di una persona cara. Con grazia e raffinatezza, la Paoloni immerge il lettore nella tristezza tipica della mancanza appena provata, nell'impotenza che una morte evoca, nel combattimento interno tra il dover soffrire e il voler, nel contempo, vivere la propria vita perché troppo breve. Non è forse durante i lutti che il valore della vita acquisisce più significato? Non è forse giudicato immorale, ma terribilmente reale e umano, desiderare esternare il proprio bisogno di respirare proprio nei momenti meno opportuni che presuppongono un distacco eterno con una persona cara? La vita è tutto e quando viene strappata in maniera repentina, senza alcuna spiegazione, immediata e inaspettata, il vuoto che lascia è tale da creare una destabilizzazione generale nelle coscienze che, invece, sono costrette a continuare a vivere, soffrendo e riflettendo. Proprio in questi momenti si sente forte la necessità di ricevere amore, vicinanza, dimostrando a sé stessi di essere in grado di godere di tutto ciò che la vita offre prima che sia troppo tardi. Combattendo con una morale che vorrebbe un lutto eterno, forse, che getta colpe inutili e inesistenti perché bisognosa di trovare un qualsiasi appiglio a un dolore troppo contorto e grande da arginare e comprendere. Aldilà dell'aspetto erotico, che viene affrontato con estrema grazia e raffinatezza dal linguaggio mai volgare a cui l'autrice ha abituato il suo lettore, ciò che emerge chiaro è il messaggio di speranza, di rivincita su ciò contro cui non si può combattere ad armi pari. Il personaggio di Norman rispetta i normali cliché del romance classico, bello, apparentemente dannato, rude ma sensuale, dalla prestanza fisica intima assolutamente invidiabile, conturbante nel senso più centrato del termine. Elly, al contrario, pur rispecchiando alcuni connotati dei personaggi femminili del genere, ovvero essere delicato e incline al pianto, fragile quanto basta per intenerire, ma non troppo da essere succube o vittima, presenta un carattere volitivo, intraprendente, incline più alla concezione moderna di passione e realizzazione del proprio ego di quanto ci si aspetterebbe. Forse, se vogliamo, sono i personaggi secondari a essere davvero interessanti ed è un peccato che non siano stati descritti con più dovizia di particolari. Giunti al termine della novella, in effetti, si rimane con la voglia di scoprire un po' di più circa la vita di Danielle, vera anima della festa, l'elemento di disturbo simpatico e geniale che sprona e fa sorridere. Ci si chiede poi come si fosse sviluppata la storia tra George e Judith, oppure quali siano i reali sentimenti dei genitori di Elly e cosa li abbia indotti a un cambiamento repentino e sincero nel finale. Insomma, una novella facilmente ampliabile e godibile, quella della Paoloni, che lascia l'acquolina in bocca e non soddisfa in pieno perché, forse, troppo breve. È la scrittura dell'autrice che porta a volerne di più, in effetti, laddove vi sono amplessi sapientemente descritti che forse rubano la scena a parti di un mondo che è quasi sembrato palesarsi oltre la finestra della propria casa. Insomma, Alessandra Paoloni convince anche nella nuova veste di scrittrice romance-erotico, forte di una proprietà di linguaggio capace di adattarsi a ogni stile, ma deve scrivere di più. Altamente consigliato, “È te che aspettavo” vi attende su amazon!      

giovedì 20 marzo 2014

Europa di Francesco Grimandi


Europa
Herr Friedrich è in viaggio verso lo strano maniero che lo attende, seguendo strade tortuose e oltrepassando valichi interdetti ai non addetti. C'è un manipolo di persone ad attenderlo, nella stanza buia del maniero, persone importanti, persone dannatamente importanti. Lo vogliono, desiderano i suoi servigi. Uno, in particolare, che crede fermamente nel suo dono. Himmler, uno dei personaggi più in vista del reich, conosciuto da Hitler nei giorni della Thule. Friedrich arriva, giunge al cospetto di Karl e attende il lasciapassare per accedere alla riunione. Ha l'impulso di tornare indietro, ma sa che non può. Deve assolvere ai compiti per cui è stato convocato, pena la morte e lui, come Karl, lo sa bene. È pronto, Friedrich, a “vedere”? È pronto a darne notizia a chi pende dalle sue labbra, impaziente di riferire tutto al grande cancelliere del reich più potente di tutti i tempi? Francesco Grimandi lo svelerà, pagina dopo pagina, rivelando, con un talento posseduto da pochissimi scrittori emergenti, una sfaccettatura della seconda guerra mondiale davvero poco conosciuta. Non si parla quasi mai della vena esoterica delle SS, dei riti nei quali il nazionalsocialismo ha tratto le fondamenta necessarie a proliferare in suolo tedesco, delle profonde credenze proprie degli esponenti più importanti del partito. Nonostante ogni fatto narrato da Grimandi sia il frutto di una fervida immaginazione, atta a spalancare la conoscenza e lo studio di una materia tanto vasta quanto inflazionata, il suo breve racconto riesce a colpire e impressionare, spingendo il lettore a ricercare, nella storia e i suoi meandri, appigli reali per poter ricondurre determinate scene presenti tra le pagine di “Europa”. È così che, tramite Friedrich, si conosce il destino di un'Europa incentrata e diretta verso una violenza destinata a un ciclico ripetersi dell'agonia. È così che si viene a conoscenza del desiderio del nazionalsocialismo di trarre forza da un esoterismo in grado di fornire la sicurezza necessaria a perpetrare il proprio credo, perennemente instabili e insicuri circa il futuro di una nazione incline ai subdoli dei Denaro e Potere. In maniera inquietante, Grimandi prospetta la visione di un Europa passata simile a quella moderna. E se un Friedrich esistesse anche nei nostri giorni e avesse già interpretato e intravisto il nostro destino? E se il ciclo storico a cui il mondo è soggetto continuasse in eterno, decretando la devastazione già vissuta dai nostri nonni e prossima a un'ennesima rappresentazione?

Ma Grimandi, nel suo breve e-book, ci regala un'ulteriore chicca imperdibile. Molto simile agli indovinelli della Sfinge, il suo “Io sono e sempre sarò” rappresenta una parentesi di intelligenza e maestria scrittoria impossibile da ignorare. Dal linguaggio davvero elegante, così come lo è per Europa, Grimandi riesce a incuriosire, coinvolgere, inducendo a una lettura frenetica e spasmodica che prevede la sua interruzione solo al termine della storia narrata. Che dire? Quando leggo Francesco Grimandi io ringrazio i santi di averci concesso il lusso di poterci godere una persona che può davvero fregiarsi del nome di scrittore!

martedì 18 marzo 2014

Il festival degli atti impuri di Artemide B. & Ermione



Ermione si sta recando, insieme a Eden e al suo ragazzo, al festival che vedrà coinvolti parecchi autori del genere erotico contemporaneo. Bisessuale, neanche troppo velatamente, La ragazza è profondamente scossa da emozioni contrastanti, ma terribilmente potenti, in grado di farla vacillare davanti al fascino di una bella donna in contrapposizione con colui che ha scelto come suo compagno attuale. Nonostante questo non presti la minima attenzione verso il mondo che la circonda, che la attrae e che, forse, la rende più forte e viva di ciò che, in realtà, è. Ovvero Claudia. Claudia avvinta dal sentimento che apparentemente la lega al ragazzo. Claudia incline al fascino di Eden, co-autrice del manoscritto a cui recentemente hanno dato vita insieme. Claudia alla continua ricerca di qualcuna che possa, in qualche modo, colpirla e affascinarla più dei suoi compagni, quasi vivesse in una continua e costante ricerca del proprio essere nel fascino delle altre donne. Ed è proprio così che si imbatte in Artemide, donna gotica, barocca, dalla bellezza eterea e senza tempo, dal linguaggio desueto ma, per questo, profondamente accattivante. Artemide, donna dalle forme conturbanti, decisamente marcate e ostentate, dalla mascolinità latente nel carattere ma non nei tratti, sapientemente smussati, tranne le labbra, dal chirurgo. Perché Artemide, in realtà, era un uomo. Nato come tale, come spesso accade, solo esteriormente, costretto a vivere una pubertà non sua, priva della femminilità a cui agogna per natura psicologica contraria alla genetica. Le due si conosceranno, annusando l'una la vita dell'altra, come felini sinuosi stretti in una danza suadente e conturbante. E tutto ciò avverrà durante ciò che viene denominato “Il festival degli atti impuri” che di impuro, in fondo, non ha nulla se non il contrasto con la morale sociale che vorrebbe ogni donna e ogni uomo profondamente calato nella recitazione della propria parte. Ed è proprio questo ciò che si evince dal racconto di Artemide, ovvero l'ostinazione, in molti, di recitare una parte non rispondente la realtà. L'autrice, forte della sua personale esperienza, indaga il mondo fin troppo celato delle persone considerate “diverse” e per questo additate, sovente, perché non rispondenti ai classici canoni di bellezza e portamento propri di una società permeata di regole antiche, ma non troppo, soprattutto bigotte. La realtà, ed è quella che traspare nel finale in maggior misura, è che l'istinto umano gioca un ruolo ben più forte delle imposizioni date dai potenti, solitamente clericali, che vorrebbero come status sociale “normale” una donna e un uomo in casa propria, atti a non ostentare le proprie passioni e i propri ardori. Ma cosa c'è di male, in fondo, ad esternare il proprio modo di essere? Di cosa si ha, realmente, paura? Timore di essere giudicati, di essere additati, non compresi, emarginati. In favore di una normalità che solo raramente rispecchia ciò che davvero una persona prova e desidera. “Il festival degli atti impuri” è un inno al lasciarsi andare, a vivere il proprio modo di essere, con i propri dubbi e le proprie paure, senza remore nell'essere giudicati per qualcosa che in fondo provano un poco tutti e tutte. Se superficialmente il racconto narra solamente di ostentazione della propria natura trasgressiva, nel profonda tenta di spingere ogni essere umano a comportarsi come meglio crede, pur nel rispetto del pensiero altrui, vivendo nel pieno delle proprie facoltà ciò che realmente è in grado di donare benessere e godimento, veri e quasi unici piaceri terreni. Il linguaggio forbito, proprio del personaggio di Artemide, cede il passo, talvolta, a terminologie più grette, necessarie, però, e volte a sottolineare atti e pensieri difficile da esprimere e trasmettere in caso contrario. Profondamente colpita da un universo che non conoscevo nel profondo, che lascia adito a pensieri e riflessioni ai quali nessuno è spinto mai, se non per pura necessità, sono davvero soddisfatta di aver letto qualcosa di nuovo, magistralmente narrato, pregno di una grazia quasi insospettabile, persino dal titolo. Giunta alla fine della lettura è rimasta, aleatoria, la domanda di quanto ci sia di biografico nel testo e quanto, invece, lasciato alla fantasia che rispecchia, comunque, alcune sfaccettature del pensiero umano reali e probabili. I vari punti di vista, durante la narrazione, si susseguono permettendo al lettore di essere nello stesso posto, nello stesso momento, ma in più coscienze nel contempo, per dar modo, in ogni caso, di comprendere sensazioni e pensieri discordanti. Discordanti tuttavia facenti tutti capo a un'unica grande verità: la realtà non è quasi mai come la si interpreta mediante le parole, bensì come la si percepisce tramite gesti, linguaggi non verbali, sguardi catturati, non soggetti a nessuna morale sociale perché proprio della psiche umana più profonda. Volete compiere un viaggio, oltrepassando le barriere imposte che obbligano il mondo a sottostare a determinati canoni stilistici e di vita? Volete conoscere un universo parallelo, molto più reale di ciò che i mass media tentano disperatamente di trasmettere come unica meta per un'esistenza giusta e corretta? Bene, Artemide e il suo “Festival degli atti impuri” è proprio ciò che fa per voi! Rinnovando i miei complimenti all'autrice per l'estrema cura nel trattare argomenti non semplici con estrema naturalezza, lascio di seguito il link all'acquisto, as usual
http://www.amazon.it/Il-festival-degli-atti-impuri-ebook/dp/B00HLTGOOE/ref=pd_ecc_rvi_3

lunedì 17 marzo 2014

Cercando di te di Sabina Di Gangi

Cercando di te



Philip è un uomo dal fascino irresistibile, considerato un bello e dannato dal genere femminile. Vive ovunque ne abbia voglia, seguendo gli affari di famiglia, assecondando i propri istinti e le proprie fantasie. Forte della consapevolezza del suo charme, è perennemente attorniato da stuoli di belle donne, pronte a farsi conquistare dai suoi occhi magnetici, di un verde infinito, e dai suoi capelli scuri e riccioluti. Il corpo prestante, un fare pressoché arrogante, saccente, ma terribilmente sensuale, non ha donna che non gli resista. Tranne una sola. Ma non può e non vuole cedere al ricordo, Philip, e per questo continua, imperterrito a cercare proprio quella donna, le sue sinuose curve, i suoi occhi, ogni minimo dettaglio del suo animo in ognuna delle sue conquiste, sognando, di notte, fuochi ardenti devastargli l'anima, osservando l'amore non corrisposto dell'unica ninfa in grado di soggiogarlo e farlo suo. Con la sola potenza del ricordo. La sua vita, lontana dalla madre e dalla terra natia, scorre da dieci anni nella continua e perenne ricerca del suo primo e unico amore, tentando di ricreare, come uno scultore, gli stessi suoi tratti nei lineamenti altrui, tuttavia senza riuscirci mai come invece sarebbe suo desiderio. Philip è ignaro che il destino ha in serbo, per lui, un ritorno inaspettato a casa, da sua madre morente, tra le braccia di chi non osa neanche più sperare in un suo ritorno. L'orgoglio, il fraintendimento e l'omertà hanno giocato, per dieci lunghissimi anni, con la vita e il destino di due persone affini, legate indissolubilmente a doppio filo l'uno all'altra, senza saperlo, senza neanche sospettarlo. “Cercando di te” è un romance classico, scritto dalla talentuosa penna di Sabina Di Gangi, autrice emergente dalle indubbie doti narrative e stilistiche. Presentandoci il cliché romance del bello e impossibile, neanche poi tanto dal momento che, come un Dylan Dog moderno, Philip è perversamente incline al fascino femminile, la Di Gangi sogna e fa sognare con una storia romantica, priva di volgarità ma dai connotati, talvolta, erotici e sensuali che non guastano minimamente la narrazione. Personaggi ben delineati, alle volte un poco stucchevoli, Philip e Nicole si presentano, fin dalle prime battute, due esseri destinati a stare insieme, contro il loro stesso orgoglio, complice forse l'inadeguatezza di loro stessi nel maturare la decisione di crescere e di affrontare i propri sentimenti. Celandosi dietro alla trincea degli anni e della distanza, grazie anche all'omertà inspiegabile della madre di lui, i due rincorrono il sogno di potersi abbracciare, un sogno adolescenziale mai davvero saziato, ma aleatorio come il classico elefante nella stanza. Devo essere sincera, io ho odiato in maniera viscerale la ritrosia di Philip, il suo essere viscidamente, quasi, perso nel ricordo del suo amore, insicuro, seppur non ne dia sentore alle sue conquiste, costretto, per questo senso di inferiorità, a ricorrere a stratagemmi vili, talvolta discutibili pur di vivere, come una sorta di serial killer, il suo sogno d'amore. Ben altra impressione mi ha fatto Nicole, forse perché donna e, per questo, più incline a un sentimento di attesa e sogno. Nonostante l'apparente fragilità, infatti, sarà proprio Nicole a dar prova di una ferrea fibra morale, colei la quale si scaglierà, rabbiosamente, contro il suo amato facendogli intuire e comprendere quanto la sua vigliaccheria abbia minato la salute di sua madre, abbandonata a sé stessa nella grande casa di famiglia. Zia Gertrude è antipatica, inappropriata e vile nella maniera più ampia del termine, risultando davvero odiosa al lettore e agli altri personaggi, persino a suo marito, dal carattere decisamente più mite. La maestria della Di Gangi risiede proprio, aldilà di una trama un po' scontata, nell'aver creato e modellato personaggi dai caratteri ben delineati, capaci di enfatizzare pregi e difetti dell'essere umano e, per questo, di gettare il lettore in un'empatia tale da farlo patteggiare per questo o quello. Non conoscevo l'autrice, eppure ne sono rimasta piacevolmente sorpresa proprio per la maestria che ha utilizzato nel tessere personaggi così vividi e forti, per avermi fatta emozionare, talvolta positivamente, talvolta in maniera contraria, regalandomi ore degne di essere trascorse nella lettura di una buona e valida storia d'amore. Un amore che non vorrei assolutamente per me, lungi dall'essere proprio del canone onirico sul quale ruota l'essenza stessa del romance, ma proprio per questo particolare e interessante. Nonostante il cliché, infatti, Philip è un personaggio inusuale, lontano dal bello dei romanzi harmony, molto più terreno e reale di quanto tutte le donne possano desiderare. Consigliato vivamente, “Cercando di te” è senza ombra di dubbio un romanzo da leggere e tenere.

sabato 15 marzo 2014

Henrietta, la seduzione dell'innocenza di Ashara

Henrietta, la seduzione dell'innocenza: (Eroxè, dove l'eros si fa parola...) (Damster - Eroxè, dove l'eros si fa parola)


Cameriera in casa Radcliffe, giovane ed estremamente conturbante, Henrietta ha da tempo una storia con lo stalliere Johnn, ragazzo stupendo, dallo spiccato sex appeal e dai modi rudi ed eccitanti in grado di provocare smania di possedimento a ogni occhiata. Con lui Henrietta spera di convolare a giuste nozze, nonostante i loro amplessi siano gli unici contatti che ultimamente determinano il loro rapporto. Fatalmente avvinta dai toni imperiosi del ragazzo, la cameriera si introduce, nei giorni prestabiliti, all'interno degli alloggi dove dimora il ragazzo per essere presa in tutte le forme che lui desideri, fino a una sera in cui lui, incurante delle conseguenze, pecca di prudenza e lungimiranza. Henrietta capisce ben presto di essere rimasta incinta e di non avere alcuna speranza di assistenza dal padre del nascituro che, senza remore, rivela la sua vera natura rigettando le proprie responsabilità conscio di abbandonare la tenuta di li a poche settimane. Henrietta, distrutta dalla solitudine e dal tradimento, decide di correre ai ripari per salvare la propria dignità e quella del suo futuro bambino; il ritorno del padroncino Robert a casa Radcliffe sembra voler essere un segno del destino. Divertente, scritto in maniera deliziosa, priva di volgarità, Henrietta lascia il sorriso a ogni riga, facendo vivere al lettore il godimento di un talento indubbio. Ashara dà prova di un'esperienza e una cultura d'altri tempi, quasi vivesse in un mondo parallelo al presente, fatalmente immersa in un'epoca lontana e capace, per questo, di narrarla senza esitazioni o difficoltà di sorta. Gli amplessi descritti non sono mai banali, al contrario ricchi di spontaneità e brio, veri protagonisti di una novella erotica in grado di stupire e far divertire. La lettura scorre velocemente, senza che alcun intoppo ne pregiudichi la godibilità, e non lascia alcun amaro in bocca per dettagli sbagliati. Senza nulla invidiare a racconti erotici d'altri tempi, dal linguaggio sinuoso, eccitante e, nel contempo, intelligente e sagace, Henrietta non delude in nessun risvolto e riesce a donare al lettore la bellezza di una novella lunga il giusto. I personaggi, sapientemente descritti in tutte le sfaccettature possibili, si accavallano, susseguendosi in un ritmo mai altalenante, immergendo il lettore, direttamente dalle prime pagine, nel pieno contesto sociale della storia narrata, testimoniando la tragicità della forza del potere su un rango inferiore, quale la servitù, ma in maniera divertente e allegra, come se talune situazioni non fossero state, in realtà, vere e proprie disgrazie per il ceto povero di una società antica. Iniziando e proseguendo nella lettura di Henrietta, in effetti, si ha quasi la percezione di esser sbalzati sul set di una di quelle commedie tanto in voga nei primi anni '80 in Italia, nei quali stallieri, camerieri e signorotti si alternavano in situazioni comiche ed erotiche nel contempo. La narrazione non presenta mai parti lente o noiose, non lascia adito a dubbi di sorta, non evoca nella mente domande dalla risposta celata o irrisolta. Sarebbe semplicissimo, se non si sapesse la verità, spacciare questo racconto lungo come uno dei tanti di un'epoca passata e non di proprietà di un'autrice attuale ed emergente poco conosciuta. Ancora una volta si ha la prova dell'indiscusso talento che alberga nell'underground della rete, con Ashara, e di come sia assurdo che tale sapienza non venga innalzata alla conoscenza della massa. In Italia si continuano a leggere le sfumature oltreoceano, quando si avrebbero i mezzi necessari a proporre la giusta concorrenza con i propri mezzi. Autori validi, nel nostro paese, ce ne sono e Ashara ne è l'inconfutabile prova. Nella speranza che qualcuno, oltre a Damster edizioni, riconosca i meriti di un'autrice dall'indiscusso talento, lascio il link all'acquisto di questa novella erotica, irriverente e terribilmente divertente, invitandovi anche a visitare il sito di Ashara ricco di ulteriori racconti.  

venerdì 14 marzo 2014

Luci rosse riflesse nel tempo di Marco Rossi Lecce





C'è una strana donna seduta tutti i pomeriggi al bar frequentato da Marco. Una donna dai tratti e dai lineamenti delicati, eppure decisi, tali da far intuire una bellezza mozzafiato perduta, ma non del tutto sopita dagli anni. La donna è anziana, è solita bere un bicchiere di vino bianco e leggere un libro. La donna è terribilmente interessante e Marco non riesce a non notarla, durante i suoi pomeriggi seduto allo stesso bar, al tavolino di fianco al suo. Spinto da una curiosità latente, l'uomo cercherà di trovare un appiglio, un pretesto, per fare in modo di entrare in contatto con quell'animo profondamente conturbante, in grado di destare curiosità al minimo battito di ciglia. E inaspettatamente la donna, accantonando il libro per un momento, presterà lui attenzione. Un'attenzione volta a scoperchiare un mondo perduto e interessante. Un mondo fatto di passione travolgente ed emozioni a fondo vissute. La donna, Sara, confiderà a Marco la sua vita, le sue gesta, riversando una memoria densa di immagini, suoni, colori e amori. Amori per gli altri, amori di altri, amori e passioni di e per sé stessa. Sara diverrà una fonte preziosa di vita, ma anche una sorta d'amante, per Marco, avvinto a doppio filo e attratto, senza apparente motivo, dal ricordo di ciò che non può conoscere, ma solo immaginare. Marco Rossi Lecce torna, dopo il suo “Gli anni confusi”, con un nuovo romanzo dalle note autobiografiche. Dal linguaggio accattivante, raramente spinto, descrive sapientemente la vita di una donna decisa a raccontare di sé, forse per svuotare l'anima, forse per solitudine, forse per semplice voglia di vicinanza. I personaggi del romanzo, tutti abbastanza credibili, si susseguono naturalmente, senza forzature, senza che il ritmo della storia risenta della moltitudine di immagini evocate o di frammenti storici narrati. Partendo da una Dresda degli anni '30, Rossi immerge il lettore in un viaggio lungo anni, passando per la Francia del '68, attraversando gli scontri armati della Roma degli anni '70 fino ad approdare, addirittura, a Bali, terra che, negli anni '80, conobbe i primi rudimenti del turismo ed espansione economica. Ma l'autore tratta anche i temi propri degli anni e dei luoghi da lui descritti, come la guerra e la deportazione, l'avvento della cocaina, la libertà sessuale e tutte le sue relative sfaccettature, non prive di cadute sociali di stile, per approdare, infine, nel mondo dell'industria cinematografica pornografica. Apparentemente fluido e semplice “Luci rosse riflesse nel tempo” tenta di spiegare, in davvero troppe poche pagine, il contesto storico e culturale dell'Europa post bellica, decifrando il moderno stile di vita del nuovo secolo. Pur riuscendoci in parte, facendo fede a connotati storici ben descritti che denotano non solo una ricerca accurata dell'autore, nonché la sua esperienza personale in taluni episodi, Luci rosse non riesce a impressionare fino in fondo. Attenendosi strettamente a narrare le vicende della donna, il romanzo non indaga fino in fondo nei sentimenti provati, non riuscendo, così, a creare la giusta empatia con il lettore verso le scene narrate, nonostante accarezzi la meta più volte. Favorendo una descrizione lineare di avvenimenti realmente accaduti, dei quali comunque è emerso tanto negli ultimi anni, Luci rosse perde un poco di entusiasmo privando il lettore di un emozione che, invece, richiede perché avvinto dai frammenti immaginati, lievemente accennati. Sara è una donna dalla carica esplosiva, capace di donare molto più di ciò che è riuscita, in effetti, a fare durante la narrazione, e non la salvano le descrizioni accurate dei suoi amplessi, che risentono comunque di un susseguirsi troppo ravvicinato nel tempo, perché troppo dettagliati ma privi di spessore emotivo. Ed è un vero peccato, perché si evince la passione, invece, propria dell'autore nel voler chiaramente raccontare una vita che lo ha affascinato e che vorrebbe affascinasse anche altri. Risulta un peccato, inoltre, perché il linguaggio non è mai volgare, estremamente scorrevole e ricco del talento proprio di chi riesce a insinuarsi in una mente inducendola a raggiungere la fine di un libro, sottilmente, senza spiazzare con enormi ed eclatanti colpi di scena, ma solo con la sapienza di una cultura latente e che è possibile evincere in ogni frase. Se, un giorno, l'autore decidesse di ampliare il suo romanzo, arricchendolo con ciò che veramente lo ha colpito, con ciò che davvero avrebbe voluto trasmettere, Luci rosse sarebbe davvero un romanzo impossibile da non leggere, per il linguaggio e per le vicende narrate, testimonianza di un bel mondo perduto e relegato ai ricordi di pochi. Nonostante l'empatia, comunque, ho letto questo romanzo in mezza giornata, segno evidente che la scrittura di Rossi Lecce è davvero buona, dannatamente “adulta”. Per una giovane come me, accanita lettrice, è possibile intravedere, tra le righe, l'esperienza di Marco e il suo profondo rispetto verso i temi trattati. Non c'è nulla da fare, la classe è classe e, nonostante lui voglia apparire un poco più greve, nella sua pagina facebook, per me rimane un gran signore e un valido autore. Curiosa di immergermi nella lettura del suo “Gli anni confusi” intanto invito tutti ad acquistare “Luci rosse riflesse nel tempo” romanzo erotico partecipante al contest indetto dalla casa editrice Damster edizioni ed acquistabile in tutti gli store on line. Seguendo il link riportato di seguito sarà possibili leggere le prime pagine del romanzo, votarlo e acquistarlo.

giovedì 13 marzo 2014

La Stella d'Oro di Barbara Risoli (partecipante al concorso 20 lines big jump)


LA STELLA D'ORO (Zolotaja Zvjezda)

La contessina Maria Frangini si appresta a scendere la grande scalinata della villa a Palmanova, cittadina friulana di proprietà dei nobili genitori. È contenta, felice, radiosa, nel suo ampio e stupendo vestito. Sa che in fondo alla scalinata, ad attenderla, vi è il suo promesso sposo, di cui conosce solo il nome, ma non l'aspetto. Rinaldo. Eppure è ignara che due occhi, neri come l'inferno, la stanno scrutando, valutandone l'acerba bellezza, scorgendone l'effettiva pericolosità dei conturbanti lineamenti, seppur giovani. È ignara, inoltre, dello scoppio violento di una guerra, la Grande guerra, che la strapperà alla sua vita, ai suoi affetti, alle sue convinzioni. E, cosa ancora più impensata e ardita, a Dio, essere supremo che muove le fila di un destino crudele per molti. Sarà proprio la guerra a gettarla nel freddo svizzero, poi in quello russo, forzatamente costretta alla vicinanza e conoscenza di uno stupratore, che stupratore non è e che forse è l'amore, la passione mai conosciuta e solo agognata, solo pensata e intuita, disattesa durante una festa in abiti settecenteschi, ultimo vago ricordo di una felicità effimera e dimenticata.

Nuovo romanzo per Barbara Risoli, nuovo successo per una penna colta, fine, dai tratti delicati e non privi di acume. La Stella d'Oro narra un amore in boccio durante uno dei periodi più brutti dell'umanità, durante una delle rivoluzioni più intense e vissute dal mondo intero. La rivoluzione russa, l'ascesa di Stalin, la caduta dello Zar e l'annientamento, in suolo bolscevico, dello sfarzo e del potere nobile. Ma prima di questo vi è la Grande Guerra, il conflitto mondiale che ha gettato l'Europa in un baratro di morte e distruzione, giungendo ai margini di un abisso che, forse, si raggiungerà pochi anni più tardi. In tutto questo fragili vite vengono a collimare, unendosi, intersecando respiri e sangue, alla ricerca di un'affannata, quanto impensata, rivalsa sul fato avverso, su un Dio inesistente o crudele, sull'ineluttabilità degli eventi, per i quali nulla è scontato e deciso a priori. Le vite di Maria e Fajzra vengono a contatto per caso, in uno scenario apocalittico come lo è stato il periodo del primo novecento, in una cella buia e angusta della piccola cittadina friulana; brevi parole, pochi sguardi fugaci al chiarore di una candela e i loro mondi, costellati di dolori fino a quel momento devastanti, si confondono. Si uniranno, i due, in una corsa verso una finta libertà, alla ricerca di un amore impossibile e inatteso. Pur desiderando la pace, tanto promulgata da Lenin, personaggio emblematico che nel romanzo emerge quasi come un carattere ideato dalla Risoli, tanto è immerso nella narrazione, i due si scontreranno contro l'ottusità dello sfarzo contrapposto alla miseria; verranno a contatto con la povertà di alcuni, improbabile arma sguainata per promulgare l'importanza di ideologie ferree ma disorganizzate e prive di basi per attecchire in un paese dilaniato dall'esautorarsi della possibilità di vita. Maria, da una parte, contessina avvezza al proprio rango, costretta al discernimento e al dolore, convinta nell'ingiustizia ricevuta dal suo Dio tanto venerato e, successivamente, odiato a tal punto da sposare una causa non sua. Dall'altra Fajzra, principe siberiano, spia bolscevica, convinto sostenitore e finanziatore di ideali che scoprirà, poi, propri di un mondo nettamente differente dal suo, profondamente calato in una parte che non gli apparterrà fino in fondo, non nel momento in cui la vita lo renderà partecipe della felicità ancora possibile e prossima alla fine. Questo romanzo è una fucina di storia, emozioni, idee, dubbi esistenziali, fedeltà cieche in personalità, dopotutto, false e ipocrite, come spesso avviene nella storia. La Stella d'Oro getta luce sull'animo umano, facendo emergere quanto l'ottusità dell'esaltazione possa compromettere una mente altrimenti lucida. Ma non solo. Un Dio crudele, forse davvero inesistente, forse semplicemente sordo alle richieste disperate dell'uomo privo di potere, che diventa la meta di un odio impossibile, inutile e cieco, quello di Maria, disposta a dimenticare addirittura le sue origini pur di stanarlo e sconfiggerlo. Ma si può sconfiggere Dio? Chi ne avrebbe giovamento? Possibile che un dolore riesca in una cecità tale? Ma vi è anche l'ateismo, la pura credenza nel fato, nel destino, nelle proprie possibilità che, se utilizzate nel migliore dei modi, riescono a creare la vita così per come la si è desiderata e immaginata. Nella Stella d'Oro, infatti, ci troviamo di fronte al grande scontro secolare della fede, della devozione assoluta contrapposta alla dura realtà che tutto mette in ginocchio, che tutto distrugge e crea. Ma vi sono anche le emozioni, gli amori, i tradimenti propri di ogni epoca, di ogni vita, di ogni coppia. Ogni personaggio reca un difetto, un pregio, una sfaccettatura dell'animo umano probabile, reale. Vi è poi lo stile inconfondibile della Risoli, il suo creare donne forti, coraggiose, possibili esseri indipendenti che, nonostante le possibilità, agognano a essere protette, amate, allontanate dai dolori e dai pericoli incombenti. Così come vi è la presenza di donne fragili, schiave degli eventi, meschine e povere vittime di angherie e soprusi propri di un rango inferiore, ignorante. Ma vi sono anche gli uomini decisamente belli, rudi, forti dall'animo incorruttibile e quasi perfetto, contrapposti ai vili, abietti, deboli e mediocri. Vi è il voluto accostamento della nobiltà alla povertà, quasi a inneggiare a una sorte di connubio tra le due fazioni, possibile e perpetrabile, necessario, forse, per una società retta ed equilibrata. Come nell'Onda scarlatta, nell'Errore di Cronos e nel suo sequel, La grazia del fato, lo stile inconfondibile dell'autrice catapulta il lettore nel vivo del contesto narrato, facendolo palpitare a ogni passo, a ogni sguardo, a ogni singulto, le bombe a deflagrare vicine, il freddo a penetrare le ossa, il dubbio a insinuarsi nelle membra. La qualità massima dell'autrice, infatti, è quella di trasmettere, saperlo fare emozionando e, nel contempo, facendo riflettere insegnando come i menestrelli riuscivano tramite i loro canti. La Stella d'Oro vuole essere, e ci riesce, una supernova capace di incendiare, far luce e rimanere nelle menti. Presente nel concorso, ormai alle sue ultime battute finali, indetto da 20lines, il cui premio finale è la pubblicazione con Rizzoli, La Stella d'Oro merita e deve essere letto, votato, commentato, amato. E, ancora una volta, mi chiedo come mai un'autrice di talento simile non sia ancora presente nel piccolo e ristretto mondo degli autori conosciuti. Meriterebbe molto più e, leggendone, capireste e capirete il perché. PER ACQUISTARLO:

PER VOTARLO, INVECE, COSA CONSIGLIATISSIMA, DOVETE ANDARE QUI:

martedì 11 marzo 2014

Perversa di Valter Padovani

Perversa
Martina si prepara a tornare a casa dopo una giornata di lavoro. Nonostante il traffico, gli ostacoli durante il ritorno, la sua eccitazione è ai massimi livelli. Luca, finalmente, sta tornando da uno dei suoi soliti viaggi e le ha promesso una sorpresa davvero entusiasmante. Le ha imposto che vestiario indossare, promettendole di non rimanere delusa. E Martina non solo crede ciecamente alle parole del fidanzato, ma non vede l'ora di saggiare fino a che punto si sia spinta, questa volta, la vasta fantasia dell'uomo. Giunta a casa la sorpresa avrà inizio, anche se...
Letto in mezz'ora, “Perversa” costituisce una gradevolissima parentesi per distendere le membra, la mente e il sorriso. Dal linguaggio mai volgare, ricercato, alcune volte, e dai tratti spinti ma giusti, questo breve racconto si fa leggere con grazia e semplicità. Non conoscevo l'autore, prima di questo suo scritto, né la casa editrice che lo ha pubblicato -Eros e Cultura-, se non per i sonetti di Xlater di cui ho parlato nei giorni scorsi, ma devo dire che la cura, l'ottimo editing e la sapienza con il quale la narrazione è presentata al lettore merita quei pochi centesimi di euro spesi. Un lavoro di qualità, sia da parte dell'autore che da parte dell'editore, “Perversa” è una storia godibile, dalla facilissima fruizione, che mette in luce l'indubbio talento dell'autore nello scrivere e dal finale fantasioso, per nulla scontato, che spiazza e, sinceramente, fa anche sorridere, nonostante il sorriso non sia proprio la reazione che ci si aspetterebbe nella realtà davanti alla prospettiva presentata. Consigliatissimo!  

lunedì 10 marzo 2014

Amori a metà di Antonietta Agostini


Amori a metà


Un'affermata speaker radiofonica della Capitale, una bella famiglia, una stupenda bambina e una casa permeata dell'odore tipico di un'unione stabile. Chiara, una donna come tante, divisa tra lavoro, impegni quotidiani e vita familiare. Chiara... che ama Francesco. Suo marito? No. L'uomo con il quale condivide il tetto, le spese, una vita solo apparentemente appagante, ma in realtà densa di silenzi e priva di abbrivio, non è lo stesso che la donna ama. Perché Francesco è l'altro, è l'amante, il vero papà di Nicole, la sua bambina. Per quanto tempo si può fingere un amore terminato? Per quanto si può riuscire a fuggire da un sentimento, invece, vivo e profondo? Chiara non lo sa, ma capisce che il tempo delle menzogne sta volgendo al termine, e che, prima o poi, la verità necessita di essere rivelata per il bene di tutte le parti coinvolte nella storia. Ho letto questo libro, centellinando ogni pagina affinché potesse trasmettermi le emozioni volute dall'autrice. E ci sono riuscita, tanto da provare, in alcuni momenti, repulsione verso situazioni vissute ed empatia verso sentimenti condivisi. Chiunque, nella propria vita, ha trascorso almeno un giorno pensando di non avere via d'uscita, credendo che l'amore della propria vita fosse rappresentato da colui che rifiutava il cuore donato, la gioia di un futuro pronto vivo e a pochi passi. La forza di questo romanzo, infatti, è proprio il modo che la Agostini ha di proporre la narrazione al lettore, facendo calare quest ultimo in situazioni reali, possibili e dannatamente probabili. Si conosce il dolore di una separazione, si conosce l'essere costretti a un rifiuto che non si vorrebbe, si conosce la sofferenza di non essere compresi, le brutture derivanti dalla solitudine. Un romanzo dall'impatto forte, a volte davvero di difficile fruizione tanta è la pena che sovente si prova davanti a scene che si vorrebbero modificare. Ci si trova a consigliare, mentalmente, alla protagonista varie vie di fuga, invitandola ad accettare o negare determinate situazioni. Si soffre con lei, chiedendosi come mai l'autrice abbia scelto di creare personaggi che l'attorniano completamente incapaci di donarle preziosi e utili consigli. Ci si danno l'anima a fronte di determinate decisioni, reputate molte volte stupide e inaccettabili. Poi, come un'illuminazione, si comprende che, effettivamente, la storia narrata è propria di molte donne, in grado di mettere davanti alla propria felicità l'impossibilità di un amore pur di non inficiare la fiducia propria di quel sentimento, arrivando a ignorare qualsiasi evento mosso dal fato atto a soverchiare una realtà troppo difficoltosa e priva di alcuna felicità. Ed è solo in quel momento che si riesce ad accettare il compromesso finale, la decisione ultima, il susseguirsi di eventi che chiunque vorrebbe modificare, anche perché una sola nota positiva esiste in tutto il romanzo, ed è la bambina, frutto di un amore a senso unico ma capace di donare un universo variopinto di sensazioni differenti, ma belle. Lo ammetto, è stato difficile giungere alla fine del romanzo, ma non per il modo in cui è scritto o per qualche pecca nella narrazione, bensì per l'intensità di alcuni sentimenti comprensibili in pieno solo a chi li ha provati e vissuti davvero. Mi sento di consigliare a chiunque questo romanzo, proprio per la forza delle emozioni che è in grado di suscitare, nonché le riflessioni che ne possono derivare.